Big Data

Morte 2.0: potremo raggiungere un’immortalità virtuale?

6 May 2019 | Scritto da Alberto Laratro

Fra social media, assistenti virtuali e navigatori satellitari stiamo disseminando il mondo con una mole enorme di dati sulla nostra identità. Cosa succede a questi dati quando moriamo? Potrebbero essere usati per “riportarci in vita”?

Facebook è nato con una fantastica idea di fondo, connettere le persone con i propri cari ma, con il passare del tempo, si sta trasformando sempre più in un luogo in cui le persone vengono per commemorarli. Uno studio dell’Oxford Internet Institute ha stimato che entro 50 anni, sul social network blu, i morti saranno più dei vivi: il più grande cimitero del mondo. Se il numero di nuovi iscritti continuasse a crescere con lo stesso ritmo, prima della fine del secolo ci saranno quasi 5 miliardi di profili che appartengono a persone morte, la maggior parte localizzate in India, Africa e Indonesia.

I profili “In memoria di”. Un numero enorme di profili che corrisponde ad un numero enorme di dati, anche sensibili, il cui destino è poco chiaro. “Queste statistiche fanno nascere domande nuove e difficili su chi possiede tutti questi dati, come dovrebbero essere gestiti nel migliore interesse delle famiglie e degli amici del defunto e il suo uso da parte dei futuri storici per capire il passato”, ha commentato l’autore dell’articolo Carl Öhman, dottorando all’OII.

Sui social network pian piano appaiono modi che permettono agli utenti di decidere cosa accade ai propri dati una volta passati a miglior vita: Facebook permette di indicare un erede digitale che avrà modo di gestire limitatamente il profilo del defunto, rendendolo commemorativo o cancellandolo. Quest’ultima operazione che in teoria elimina i dati dai server nel giro di un mese, in realtà non porta a una totale eliminazione della nostra presenza sul social network visto che le interazioni in gruppi o pagine pubbliche non vengono cancellate. Per Twitter vale lo stesso, i contenuti che in qualche modo sono fuoriusciti dal proprio profilo rimangono di proprietà del colosso dei 280 caratteri.

Non solo social network. La questione della gestione dei dati dei defunti non riguarda solo Facebook o gli altri social network: la nostra presenza online è come la passeggiata nel bosco di Hansel e Gretel, una scia di briciole che permettono di ricostruire il nostro percorso, la nostra vita. Dai dati GPS che, in maniera aggregata, rimangono nelle mani di Google, alle nostre cartelle mediche che nel nostro Paese, in forma anonima, rimangono negli archivi per 30 anni così da poter essere utilizzati per ricerche. Anche i nostri acquisti online in qualche modo restituiscono un’immagine della nostra persona. I libri, i dischi, i film in qualche modo ci definiscono, mostrano i nostri gusti, le nostre passioni, interessi. Se da un lato i nostri dati, con le nostre preferenze e le nostre scelte, rimangono in mano ai colossi dell’e-commerce, dall’altro lato i nostri eredi non avrebbero modo di accedervi. Perderli per sempre al nostro decesso senza avere un modo di trasmettere le informazioni contenuti in quelle scelte, significa perdere per sempre una parte di ciò che si era.

Con una sempre maggiore presenza di dispositivi IoT, assistenti virtuali come Alexa o robot che per funzionare tracciano una planimetria delle nostre case come i Roomba, la quantità di dati che vengono raccolti è immensa. Sono dati la cui sorte è poco chiara perché, come purtroppo spesso accade, la legislazione non riesce a tenere il passo con l’innovazione tecnologica.

Dai dati alla Storia. “Facebook dovrebbe invitare storici, archivisti, archeologi ed esperti di etica a partecipare al processo di cura del vasto archivio di dati accumulati che lasciamo alle spalle quando moriamo – ha spiegato David Watson, co-autore dello studio citato sopra – non si tratta solo di trovare soluzioni che saranno sostenibili per i prossimi due anni, ma per molti decenni a venire. ”

Mai prima d’ora, infatti, gli storici hanno accesso a un così grande numero di dati, testimonianze e riferimenti culturali, sarà importante trovare, in quest’ottica, un equilibrio fra corretta gestione della privacy e possibilità di ricostruire la storia.

Immaginate un futuro non troppo lontano in cui sarà possibile ricostruire la personalità di un personaggio storico e renderlo un mezzo per trasmettere conoscenze contestualizzate sulla sua epoca, delle statue di cera 2.0. Sforzi in questa direzione sono, in effetti, già in corso. Il progetto New Dimensions in Testimony, nato dalla collaborazione fra l’University of Southern California’s Institute for Creative Technologies e la  Shoah Foundation sta ricreando una dozzina di biografie interattive degli ultimi sopravvissuti dell’Olocausto, attraverso speciali sistemi di ripresa a 360° si può restituire un’immagine tridimensionale di queste interviste interattive, in grado di rispondere alle domande dei visitatori sulle loro vite e sulle esperienze di quei terribili giorni generando automaticamente le risposte sfruttando un archivio di informazioni fornite dal testimone originale anche dopo la sua dipartita.

“Se la persona che ha fornito la testimonianza – ha spiegato David Traum, leader del progetto – non ha mai detto, ad esempio, il suo colore preferito, non è consentito al sistema di trovare una risposta, ad esempio estrapolando dai colori dei vestiti della persona. Dovrebbe essere chiaro all’utente che la simulazione ha lo scopo di parlare di una situazione specifica”. Mentre un sistema in grado di generare risposte può rendere il suo soggetto più reattivo, Traum avverte che essere in grado di costruire risposte vorrebbe dire mettere parole in bocca di qualcun altro: “Potrebbe diventare difficile o impossibile sapere se qualcuno ha effettivamente detto qualcosa o meno. L’autenticità è un problema importante.”

Fantasmi virtuali. Spingendosi un po’ più in là si può arrivare a risultati allo stesso tempo inquietanti e meravigliosi: la possibilità di ricostruire virtualmente una traccia della personalità di una persona cara e dar modo ai propri cari di rapportarcisi dopo la sua dipartita. Un modo per affrontare il lutto o un rischio di snaturare il nostro rapporto con la morte?

Si tratta di chatbot del lutto. La tecnologia è simile a quella degli assistenti virtuali come Siri o Alexa, ma il fine è diverso: fornire un modo nuovo di affrontare la scomparsa di una persona cara. Un esempio è Roman Bot, sviluppato da Eugenia Kuyda, programmatrice russa. Alla morte improvvisa di un suo caro amico, Roman appunto, Kuyda sentiva il bisogno di parlare un’ultima volta con il suo caro, ha deciso quindi di raccogliere gli innumerevoli messaggi scambiati con lui e di usarli come archivio per permettere ad un IA di simularne la personalità.

Nel 2014 è nata invece Eternime, startup che vuole renderci tutti “immortali” o meglio, rendere tale la nostra memoria. Si tratta di una app che raccoglie dati automaticamente dal telefono o facendo domande agli utenti. In questo modo si spera di raccogliere abbastanza dati da permettere in futuro di creare una nostra copia virtuale, un chatbot capace di interfacciarsi con i nostri cari.

Un alter ego digitale, però, è rischioso: non è facile mantenere l’equilibrio fra il restituire una simulazione convincente e il rischio di divulgare informazioni private che si vorrebbe rimanessero tali. I dati raccolti da iniziative di questo genere, inoltre, sarebbero in possesso delle aziende che offrono questi servizi per sempre ed eventuali aggiornamenti che modificherebbero il funzionamento di questi chatbot non sarebbero opinabili: i morti non possono recedere dai contratti.

Andando più a monte, il problema è di natura etica, oltre che legislativo. Quanto è sano permettere un attaccamento quasi morboso verso i morti? Se e quando la tecnologia sarà abbastanza sviluppata da fornire copie fedeli dei nostri cari, questo allevierà la sofferenza di parenti e amici dei defunti o rischierà di comprometterne la salute mentale e il loro rapporto con una delle parti fondamentali della vita, la sua fine? Secondo Carl Öhman “come società, dovremmo pensarci due volte prima di lasciare interamente la natura delle nostre vite post morte a un mercato non regolamentato”.

Alberto Laratro
Alberto Laratro

Laureato in Scienze della Comunicazione e con un Master in Comunicazione della Scienza preso presso la SISSA di Trieste ha capito che nella sua vita scienza e comunicazione sono due punti fermi.

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