Cambiamento climatico e ambiente

I grandi rischi globali: i super vulcani

14 May 2020 | Scritto da Alberto Laratro

Nuovo appuntamento con la rubrica sui rischi globali, le maggiori sfide che l’umanità dovrà affrontare nei prossimi anni. Oggi parleremo di un pericolo che si cela nel sottosuolo in attesa di cambiare il mondo: le eruzioni di supervulcani

Nel 1816 l’estate non arrivò. Lo storico John Post definì questo evento, noto come “l’anno senza estate”, “l’ultima grande crisi di sopravvivenza del mondo occidentale”. A maggio, quando ci si aspettava il ritorno del Sole e un ricco raccolto, le temperature non salirono ma, al contrario, iniziarono a calare. In Europa, all’epoca ancora stremata dalle guerre napoleoniche, nel Nord America, ma anche in Asia e altre parti del mondo il drastico calo di temperatura, fino a 5 gradi sotto la media, ebbe impatti devastanti. I raccolti congelavano o non crescevano, gli animali non avevano foraggio per nutrirsi e morivano a migliaia, interi Paesi emigrarono verso zone più calde. In Cina la stagione dei monsoni venne alterata portando a enormi inondazioni lungo la valle dello Yangtze. In Ungheria, come in Italia, cadde neve sporca di nero e di rosso. In Svizzera, dove era stata dichiarata un’emergenza nazionale a causa della scarsità di cibo, le continue piogge e il maltempo costrinsero un gruppo di amici letterati fra cui Mary Shelley, John Polidori e Lord Byron a passare le loro vacanze sul lago di Ginevra chiusi nella villa Diodati. Per passare il tempo si sfidarono a chi potesse scrivere la storia più spaventosa. Nacque così, dalla penna della Shelley, il racconto di Frankenstein e del suo mostro.

Tutto questo, però, avvenne a causa del risveglio di un altro mostro, molto più terribile e mortale. L’anno prima, nell’aprile del 1815, il super vulcano Tambora, nell’isola di Sumbawa dell’attuale Indonesia, eruttò con una potenza devastante, immettendo nell’alta atmosfera una quantità enorme di polveri. Secondo alcune stime oltre 10 miliardi di tonnellate di cenere rimasero sospese nella stratosfera in una colonna alta 43 km, oscurando il Sole. Ci vollero alcuni anni affinché il clima si riprendesse completamente.

L’eruzione del Tambora è la più grande eruzione di cui abbiamo testimonianze e le sue conseguenze hanno lasciato segni indelebili nella nostra storia. Altre eruzioni del passato hanno cambiato il corso degli eventi, come quella del Laki in Islanda, i cui impatti devastanti sui raccolti contribuirono alla rivoluzione francese, o quella più antica di Santorini che potrebbe aver dato origine al mito di Atlantide. Come cambierebbe la nostra storia se un evento del genere accadesse oggi, quali conseguenze avrebbe un’eruzione di questo tipo sulla nostra civiltà e cosa possiamo fare per limitare i danni?

 

Un rischio globale. Il pericolo posto da un super vulcano è immenso. Il poter distruttivo di un’eruzione che raggiunga la massima scala VEI (l’indice che classifica le eruzioni vulcaniche esplosive in relazione al materiale che viene immesso in atmosfera) è tale da fare letteralmente terra bruciata ovunque attorno a sé nel raggio di km. Se l’esplosione diretta è potenzialmente letale ma ha un’area di influenza relativamente ristretta, le emissioni di ceneri e polveri invece, come fu per il Tambora, possono raggiungere una scala globale con conseguenze gravi sulla produzione di cibo mondiale.

Il termine “supervulcano” non è molto usato dai vulcanologi, infatti è stato coniato dagli autori di un programma divulgativo scientifico, Horizon, mandato in onda dalla BBC nel 2000, per riferirsi al risveglio di grandi caldere, capaci di produrre gigantesche eruzioni vulcaniche. La differenza quindi è nella dimensione e nella portata di questi giganti assopiti, che non si mostrano necessariamente come montagne coniche che eruttano lava ma come gigantesche depressioni che nascondono sotto di essere camere magmatiche che le hanno generate grandi decine se non centinaia di km.

Per quanto i danni potenziali siano enormi, le possibilità che un evento del genere accada nei prossimi decenni, se non secoli, sono molto basse. Quelli che vengono definiti super vulcani, a oggi, non possiedono una camera magmatica tale da produrre un’eruzione che potrebbe produrre uno sconvolgimento su scala globale e non ci sono avvisaglie di un loro prossimo risveglio.

Questo però non deve farci abbassare la guardia, anzi, al contrario, ci deve portare ad aumentare e perfezionare l’azione di monitoraggio che già avviene in praticamente tutte le zone vulcanicamente attive del pianeta, come il parco di Yellowstone, i Campi Flegrei, vicino Napoli, e la penisola di Reykjanes in Islanda, che potrebbero avere conseguenze, in caso di una potente eruzione, su tutto il globo.

 

Farsi trovare preparati. Non abbiamo modo di sapere con precisione quando un vulcano erutterà, i vulcanologi hanno però sviluppato sistemi in grado di stimare, con qualche settimana o mese di anticipo, quando il momento fatidico si sta avvicinando. C’è da sottolineare una questione importante: nel momento in cui un vulcano erutta non abbiamo alcun modo di contenere o mettere in atto contromisure per limitarne la portata. L’energia sprigionata dal cuore della Terra va molto oltre il nostro controllo. Quello che possiamo fare per limitare i danni ricade nell’ambito della preparazione e in questo senso una grande mano ci arriva dalla tecnologia.

 

L’aiuto della tecnologia. I miglioramenti della nostra capacità di identificare i vulcani più pericolosi sono direttamente collegati allo sviluppo tecnologico. In tutto il mondo i vulcani sono monitorati sia da stazioni a terra sia da osservazioni satellitari in grado di misurare i più minuscoli mutamenti nella loro morfologia, segno che qualcosa ribolle nel sottosuolo. L’obiettivo ultimo dei ricercatori è quello di prevedere le eruzioni come prevediamo il percorso e l’intensità di un uragano, e i recenti sviluppi della tecnologia li hanno aiutati ad avvicinarsi a tale obiettivo. I miglioramenti nelle capacità dei satelliti hanno aiutato gli esperti a rilevare lievi cambiamenti nella topografia e nel calore emesso da un vulcano che potrebbero comportare esplosioni imminenti. Nuovi sensori possono rilevare quali gas stanno venendo rilasciati da crepe e camini sfiatatoi in tempo quasi reale. Altri possono rilevare rumori sotterranei – impercettibili alle orecchie umane – legati alle eruzioni.

Anche durante un’eruzione stessa e nei frangenti immediatamente successivi le tecnologie giocheranno un ruolo fondamentale. L’uso di droni e robot semi autonomi permetterà un più rapido ed efficace intervento per salvare vite umane, mentre l’utilizzo del 5G, più resiliente e capace di gestire un carico maggiore di dati, permetterà ai soccorsi di coordinarsi meglio. Allo stesso tempo un approccio D2D (Device to device) dove le informazioni passeranno attraverso una catena di dispositivi connessi fra loro piuttosto che da un sistema centralizzato garantirebbe le comunicazioni anche in caso di fallimento della rete di telecomunicazioni.

Se da un lato, quindi, lo sviluppo di tecnologie innovative sempre più precise ci permette di sapere con precisione l’avvicinarsi di un’eruzione, dall’altro vanno messe in atto azioni che ci permettano di mitigare i danni su scala globale e a lungo termine, ovvero sviluppando una sorta di resilienza ai danni che un inverno vulcanico potrebbe causare. Questo va dal creare riserve di cibo a lunga scadenza per situazioni critiche al fare affidamento su fonti alimentari meno dipendenti dalla luce solare – compresi funghi, insetti e batteri.

Alberto Laratro
Alberto Laratro

Laureato in Scienze della Comunicazione e con un Master in Comunicazione della Scienza preso presso la SISSA di Trieste ha capito che nella sua vita scienza e comunicazione sono due punti fermi.

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