Future Society

Come lottare contro le disuguaglianze digitali

29 March 2018 | Scritto da Andrea Zorzetto

Nella nostra economia digitale e globalizzata, le disuguaglianze stanno crescendo. Per invertire questa tendenza la politica ha tre strumenti a disposizione: migliorare l’istruzione, imporre una tassazione più equa e favorire la solidarietà.

 

Prendendo in prestito una metafora di Moises Naim, scrittore e giornalista venezuelano: “La disuguaglianza è come il colesterolo, ce ne sono di due tipi: una buona e una cattiva”.
Gli esseri umani sono per natura competitivi, alimentati dall’ambizione di raggiungere una ricchezza o uno status maggiori rispetto alla media. A mio parere, questo tipo di disuguaglianza è inevitabile e rappresenta uno degli elementi principali su cui abbiamo costruito il sistema economico a oggi, probabilmente, più efficiente: il capitalismo del libero mercato.

Tuttavia, quando questa disuguaglianza si traduce in disparità estreme e permanenti, il risultato è ingiusto e nocivo, soprattutto per quanto riguarda le differenti e maggiori opportunità che i bambini ricchi hanno rispetto ai coetanei più poveri. In situazioni di questo tipo la società non evolve e, anzi, diventa stagnante.
Negli ultimi quattro decenni, purtroppo, la “disuguaglianza cattiva” è aumentata parecchio nelle economie avanzate. È vero, le disparità sono sempre esistite e proprio nell’ultimo periodo abbiamo ridotto il divario globale tra i Paesi, con centinaia di milioni di persone nel mondo che hanno abbandonato lo stato di povertà, soprattutto in Cina. Ma in Occidente i salari medi hanno smesso da tempo di crescere e il livello di produttività, al contrario, è in costante aumento. E mentre i prezzi dell’elettronica di consumo sono crollati, l’inflazione per i beni di base come la salute, l’istruzione, il cibo e gli alloggi è in crescita costante. In poche parole, sembra che la classe media sia condannata, ma perché?

Tre fattori chiave

Per prima cosa,“Il capitalismo è senza capitale”, come afferma Jonathan Haskel (professore di economia presso l’Imperial College Business School). Nel XXI secolo le economie avanzate hanno subito una trasformazione strutturale, passando dalla produzione di beni materiali a quella di beni immateriali (progettazione, branding, software e, più recentemente, dati). Questa nuova situazione premia esclusivamente quella minoranza della popolazione che possiede le abilità e le competenze necessarie a sfruttare le nuove opportunità. Solo le persone più istruite, quindi, hanno possibilità di successo. E secondo il McKinsey Global Institute non abbiamo ancora visto nulla: uno studio prevede che, entro il 2030, ben 375 milioni di lavoratori perderanno la propria occupazione e si dovranno quindi riqualificare. Alla base di questi licenziamenti di massa ci sarebbe l’automazione basata sull’intelligenza artificiale, che farà sparire molti impieghi anche tra quelli a reddito medio.

In secondo luogo viviamo nell’era della cosiddetta “economia delle superstar”. Non solo i laureati, nel mondo del lavoro, riescono a guadagnare di più dei loro colleghi senza laurea, ma è ancora più preoccupante come, in ogni settore, siano pochissimi ad arricchirsi: la maggior parte delle persone è destinata a lottare per le briciole. Internet ha abbattuto le barriere tra i settori, eliminando molti intermediari e facilitando la crescita dei “top performer”. Solo per fare alcuni esempi, Google raccoglie in media milioni di dollari di entrate per ogni dipendente, pochi cantanti si spartiscono gran parte degli introiti dell’industria musicale globale e una manciata di architetti progettano tutti gli edifici più famosi. Per citare Scott Galloway: “anche se non è mai stato così difficile diventare milionario, non è mai stato così facile diventare un miliardario”.

Infine, considerati i due fenomeni descritti sopra, deve essere rivalutato anche il concetto di globalizzazione che fin dalla sua comparsa è stata un processo orientato più al capitale che al lavoro. Nel secolo globale, infatti, i lavoratori occidentali si sono ritrovati a competere non solo con le persone dei Paesi più poveri, ma anche con i robot e le macchine, e i governi nazionali sono stati costretti ad aumentare la “competitività”. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se le tasse sulle multinazionali continuano a scendere, e che anche in un Paese come la Francia, il più socialista dell’Occidente, i ricchi, cioè l’1% della popolazione, pagano in proporzione meno tasse dei più poveri.

Tre soluzioni

L’evoluzione tecnologica e la globalizzazione sono difficili, se non impossibili, da fermare. Ciò che deve cambiare, a mio avviso, sono le politiche.

Prima di tutto, il settore dell’istruzione necessita di un aggiornamento. È giunto il momento di investire in un programma di formazione ad alto livello, messo a disposizione delle persone per tutta la loro vita. Sfortunatamente è più difficile di quanto sembri: Amy Goldstein ha dimostrato che a Janesville, nel Wisconsin, dopo che la fabbrica da cui dipendeva l’economia locale è stata chiusa, chi non tornava a scuola trovava un altro lavoro prima di chi, al contrario, decideva di investire nella propria formazione. Le persone più interessate all’apprendimento permanente tendono ad essere quelle già altamente istruite e un autista di 55 anni il cui camion diventerà autonomo difficilmente potrà diventare uno scienziato. Tuttavia, l’istruzione può sicuramente migliorare e, allo stesso tempo, essere più economica di quanto non sia oggi.

In secondo luogo, le “superstar” del mercato mondiale devono iniziare a restituire. Se l’economia moderna favorisce il capitale sul lavoro, credo sia necessario tassare la ricchezza, le proprietà immobiliari e il rendimento degli investimenti finanziari. Certo, non si tratta solo di adeguare i nostri sistemi fiscali, ma soprattutto di cambiare la nostra cultura. Come abbiamo detto all’inizio, un certo grado di disuguaglianza è utile per incentivare la creazione di ricchezza ed è giusto premiare i migliori ma oggi, forse, siamo diventati troppo propensi ad attribuire ogni merito al solo sforzo individuale. Gli studi, del resto, dimostrano come la riduzione del ruolo della fortuna renda le persone meno disponibili a mostrare solidarietà. In questo contesto, le istituzioni sociali svolgono un ruolo chiave: per fare un esempio, il contesto statunitense è senza ombra di dubbio più favorevole agli imprenditori di quello del paese sub-sahariano medio.
Se si trattasse solo di economia e non di cultura, come mai nonostante il Giappone sia una delle economie di maggior successo al mondo, nel Paese del sol levante c’è un divario di reddito molto più ridotto tra amministratori delegati e lavoratori rispetto a quanto accade in Europa e nel Nord America?

Terzo, è tempo di direttive economiche che favoriscano il mondo del lavoro. La tassazione delle aziende “superstar” è diventata praticamente impossibile secondo il dogma tradizionale che ha guidato la globalizzazione. Ma se gli Stati Uniti, l’Europa e la Cina accettassero di fermare questa corsa verso il basso in termini di norme fiscali e sociali, potrebbero presto essere chiusi i paradisi fiscali e si potrebbe iniziare a frenare il ruolo svolto dai flussi finanziari transfrontalieri. La competitività tra i Paesi dovrebbe riguardare produttività, inventiva e creatività, e non ridursi a una lotta al ribasso sulle tasse, nel tentativo di combinare un’economia dinamica con la solidarietà, così come accade in Scandinavia, Olanda e nelle nazioni di lingua tedesca.

Un nuovo algoritmo

La disuguaglianza è aumentata in tutti i Paesi ricchi a partire dagli anni ’80, ma questo fenomeno si è verificato in misura maggiore specialmente in ambito “anglosferico”. Questo significa che anche le politiche giocano un ruolo chiave. In effetti, come ha detto il grande pensatore della Silicon Valley Tim O’Reilly, il mondo è guidato da un algoritmo pericoloso, cioè il profitto degli azionisti. Ad oggi, seguire questa strada si è rivelata la scelta sbagliata, ma credo che possiamo ancora intervenire affinché i benefici della digitalizzazione e della globalizzazione si diffondano in modo più equo. Per fare questo, però, la politica deve essere disruptive.

Andrea Zorzetto
Andrea Zorzetto

Ambassador, Future Activist

Andrea Zorzetto è Ambassador di Impactscool a Parigi. Nei suoi articoli, Andrea esplora i rapporti tra politica e tecnologie esponenziali, indagando su cosa le istituzioni debbano fare affinché le innovazioni siano usate per il beneficio di tutta la collettività.

leggi tutto