Pianeta Terra e Spazio

Tutto quello che dovete sapere sulla prima immagine di un buco nero

11 April 2019 | Scritto da Alberto Laratro

L'incredibile sforzo della collaborazione internazionale EHT ha prodotto la prima immagine di un buco nero supermassiccio, quello situato al centro della galassia M87 a oltre 50 milioni di anni luce dalla Terra. Scopriamo insieme tutti i dettagli di questo affascinante risultato scientifico

“La storia della scienza sarà divisa in un prima e un dopo l’immagine” così Michael Kramer dell’European Research Council ha commentato l’incredibile risultato ottenuto dalla collaborazione internazionale nota come EHT, Event Horizon Telescope. Oltre 200 tra ricercatori, scienziati e tecnici provenienti da tutto il mondo hanno lavorato per ottenere l’immagine di qualcosa che non può essere visto, la prima immagine di un buco nero, il buco nero supermassiccio che si trova al centro della galassia M87 quasi a 55 milioni di anni luce da noi.

Siamo davanti a un momento di svolta, non solamente da un punto di vista scientifico ma anche da quello organizzativo e di coordinazione globale, l’ennesima conferma che il futuro della ricerca scientifica su larga scala non può che essere fatta superando confini politici e geografici per poter riuscire a sfiorare i confini della conoscenza.

 

Identikit di un buco nero. Prima di parlare nel dettaglio dell’immagine e di come è stata ottenuta, vale la pena spendere due righe per sapere di cosa stiamo parlando. Una buco nero nasce quando una massa enorme, una stella (se molto grande), collassa su sé stessa alla fine del suo ciclo vitale. Un buco nero, nonostante il nome, non è né un buco, né nero. Se la forma circolare e il nome suggeriscono un foro, in realtà ci troviamo davanti a qualcosa di più complesso e decisamente fuori dalla nostra esperienza.

Un buco nero è un oggetto la cui massa è concentrata in un punto, la cosiddetta Singolarità.  Questa enorme massa concentrata distorce il tessuto stesso del nostro universo, lo spazio-tempo, così tanto da non permettere nemmeno alla luce di sfuggire dalla sua presa. Il “nero” nel suo nome non è il colore, ma la mancanza di informazione: ciò che cade e accade in un buco nero rimane nel buco nero. In questi giganteschi mostri della natura il naturale ordine delle cose, le leggi fisiche, smettono di esistere una volta raggiunto un certo limite – chiamato Raggio di Schwarzschild – che si crea attorno alla singolarità.

È quello che viene chiamato Orizzonte degli eventi e potrebbe essere ciò che è stato “fotografato” da EHT. Usare il condizionale è d’obbligo,perché interpretare un’immagine del genere, per quanto sembri palese, non è facile.

M87. Credits: NASA, ESA and the Hubble Heritage Team (STScI/AURA); Acknowledgment: P. Cote (Herzberg Institute of Astrophysics) and E. Baltz (Stanford University)

L’immagine. Ciò che state osservando, infatti, non è proprio quello che sembra. Partiamo dal centro. Il disco nero che potete osservare al centro è l’Orizzonte degli eventi, da solo è più grande del nostro intero Sistema Solare, e già qui incontriamo due inganni visivi: appare come un disco ma si tratta di una sfera, anche se non in senso fisico. Viene definita come superficie matematica: immaginatela come i confini di una nazione, non esistono fisicamente ma le conseguenze della loro esistenza sono molto chiare a tutti.

Abbiamo detto prima che questa “superficie” ha come raggio quello di Schwarzschild, eppure in realtà, nell’immagine appare 2.6 volte più grande di quanto dovrebbe. Questo perché la distorsione dello spazio-tempo attorno al buco nero è così forte che il nostro sguardo viene curvato attorno e dietro la sfera dell’Orizzonte degli eventi, di fatto mostrandoci anche il retro del buco nero, se solo fosse possibile osservarlo, quindi ci appare come una zona di nulla più grande.

Ma non è l’unica cosa che viene distorta. Il cerchio di luce, la cui interpretazione non è ancora totalmente certa, dovrebbe essere una fusione fra il bordo dell’orizzonte degli eventi e il disco d’accrescimento attorno a esso. La materia che è così sfortunata da passare nei pressi del buco nero viene attratta verso di esso e inizia a spiraleggiare a velocità folli, prossime a quelle della luce. A tali velocità relativistiche la materia che compone il disco (perlopiù polveri e gas) si riscalda a temperature di miliardi di gradi diventa plasma, emettendo onde radio.

Il team di ricerca ha osservato che questo disco di plasma si trova pressappoco perpendicolare al nostro punto di vista, come se lo stessimo osservando dall’alto, e che ruota in senso orario. Ed è proprio la rotazione a donare all’anello quella caratteristica zona più luminosa in basso. Si tratta dell’effetto Doppler relativistico. Parliamo in maniera più chiara: l’effetto Doppler è quello che ci fa sentire il suono di una sirena in avvicinamento più acuto rispetto a quello della stessa quando si allontana. I fronti d’onda sonora si accumulano quando la fonte del suono si muove verso di noi, si distanziano quando si allontana. L’effetto Doppler relativistico è la stessa cosa ma con la luce al posto del suono. Quando la materia, ruotando a quella velocità, si muove verso di noi, è come se la luce che emette si accumulasse e diventasse più intensa, di contro, quando si muove via da noi perde luminosità.

Il buco nero al centro di M87 è gigantesco. Ha una massa di 6,5 miliardi e mezzo di volte quella del Sole, eppure nonostante le dimensioni, appare piccolissimo. Quanto? Quanto un seme di sesamo a Washington D.C. visto da Bruxelles. È l’incredibile distanza che ci separa da esso a renderlo così microscopico, 53.5 milioni di anni luce. La luce che è giunta fino a noi e che abbiamo usato per realizzare questa immagine ha viaggiato per 53.5 milioni di anni: questo buco nero appariva così quando sulla Terra i dinosauri erano da poco estinti. Ma come abbiamo fatto a raccogliere la poca luce che ci giunge da luogo così lontano?

EHT, lo sforzo internazionale. È importante da subito chiarire una cosa, l’immagine che vedete non è una foto come la concepiamo noi, è qualcosa di simile ma anche di diverso. Si tratta della ricostruzione visiva dei dati raccolti attraverso onde radio. Abbiamo parlato di luce raccolta perché quella che chiamiamo normalmente luce in realtà è solo una piccola frazione di ciò che in linguaggio scientifico viene chiamato spettro elettromagnetico, i fotoni, le particelle che trasportano l’informazione luminosa, hanno una lunghezza d’onda variabile e con il variare di questa si passa dalle onde radio fino ai raggi gamma, nel mezzo una piccola fetta è ciò che chiamiamo comunemente luce, quella che i nostri occhi sono in grado di percepire. Si tratta quindi sì di una foto, ma ottenuta sfruttando le onde radio e la “macchina fotografica” che abbiamo utilizzato è la più grande che sia mai esistita.

Per osservare un oggetto così apparentemente piccolo, occupa nel cielo infatti solo 40 micro arco-secondi, è necessario un radiotelescopio gigantesco, grande quanto il nostro intero pianeta. Ovviamente costruire un oggetto del genere è praticamente impossibile, ecco perché si è scelto di seguire una via alternativa: realizzare un telescopio virtuale. La tecnica usata per unire i dati si chiama very-long-baseline interferometry o VLBI e prevede una sincronia perfetta per coordinare i dati; per farlo sono stati utilizzati orologi atomici con una precisione senza precedenti. 8 radiotelescopi sparsi per tutto il globo hanno raccolto contemporaneamente, per 4 giorni, i dati da un minuscolo punto nel cielo per poi sincronizzarli grazie ad un algoritmo opera di una giovanissima ricercatrice, Katie Bouman. Un lavoro non da poco considerando che stiamo parlando di 5 petabyte di dati, 5000 Terabyte, suddivisi in 6 metri cubi di hard disk.

Alcuni dei telescopi usati non si trovano in posti facili da raggiungere e in cui non arriva una connessione dati abbastanza veloce per questo i diversi hard disk sono stati spediti via nave o aereo in contenitori raffreddati ad azoto liquido.

Katie Bouman. Credits: EHT

Sconfiggere il bias. Si sa che noi umani siamo bravi a vedere ciò che vogliamo vedere; per evitare che involontariamente l’analisi dei dati portasse a risultati non oggettive i vari hard disk sono stati inviati a diversi team di ricerca indipendenti, ciascuno dei quali ha elaborato l’immagine in proprio. I risultati sono sempre uguali, la conferma che ciò che stiamo vedendo è davvero un buco nero. Ne siamo sicuri perché 100 anni fa un signore che forse conoscete, un certo Albert Einstein, aveva ipotizzato l’esistenza di questi incredibili oggetti astronomici e ne aveva descritto matematicamente le caratteristiche. I modelli costruiti da quelle formule corrispondono perfettamente ai dati raccolti e alle immagini da essi elaborate.

 

Gli impatti. C’è già chi parla di foto del secolo, a buon ragione, ma andando oltre l’importantissimo senso di meraviglia che risultati del genere possono creare, cosa abbiamo ottenuto davvero da questo sforzo durato due anni?

  • Abbiamo ottenuto la prima conferma dell’esistenza dei buchi neri, adesso il loro studio passa dall’essere totalmente teorico ad essere scienza sperimentale.
  • Il fatto che questo buco nero appaia proprio come avevamo teorizzato dovesse apparire è l’ennesima conferma della relatività, una teoria che, in maniera quasi invisibile, ha plasmato la nostra società tecnologizzata.
  • Come accadde per la rilevazione delle onde gravitazionali, questa osservazione apre un nuovo campo di studio nell’astronomia e nell’astrofisica che sarà tutto per le nuove generazioni di studenti e ricercatori.
  • Come accennato all’inizio di questo lungo articolo, ancora una volta la scienza si dimostra essere un motore di collaborazione e unione capace di superare le incomprensioni politiche. In questo periodo di nazionalismi e crisi è importante di tanto in tanto trovare un faro di speranza e di fratellanza.

 

E ora? Questa foto rappresenta la fine di un impegno internazionale e allo stesso tempo un inizio. Il prossimo passo sarà quello di ottenere la foto di un altro buco nero, SgrA* che si trova al centro della nostra galassia che, assieme a quello osservato, era l’altro obiettivo della campagna di ricerca. Tutti si aspettavano infatti di ottenere una foto del buco nero a noi più vicino, SgrA* si trova infatti a soli 26.000 anni luce da noi, ma non avevamo fatto i conti con la polvere che lo circonda, che ne rende più difficile l’osservazione, inoltre essendo più vicino e più piccolo riuscire ad inquadrarlo con precisione richiede uno sforzo maggiore. A quanto pare però i dati sono stati già raccolti e ora bisogna “solamente” elaborarli. Ma le sorprese non finiscono qui, in futuro potremmo aspettarci anche un video che mostri il movimento del buco nero. Inoltre, con l’arrivo di nuovi telescopi nella rete EHT saremo in grado di ottenere, oltre ad una risoluzione maggiore, anche una versione degli scatti con luce polarizzata, cosa che fornirà moltissimi dati massicci campi magnetici che circondano i buchi neri.

Alberto Laratro
Alberto Laratro

Laureato in Scienze della Comunicazione e con un Master in Comunicazione della Scienza preso presso la SISSA di Trieste ha capito che nella sua vita scienza e comunicazione sono due punti fermi.

leggi tutto