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La cosmologia è da riscrivere? Il mistero della costante di Hubble

27 May 2019 | Scritto da Matteo Serra

Lo sforzo per trovare uno dei valori più ricercati in ambito cosmologico è sempre più dibattuto.

Nel 1929 l’astronomo americano Edwin Hubble realizzò una scoperta destinata a cambiare per sempre la cosmologia (la disciplina che studia l’origine e l’evoluzione del nostro universo). Lo scienziato, basandosi su osservazioni pioneristiche che studiavano il moto delle galassie in relazione alla loro distanza, giunse alla conclusione che il nostro universo è in espansione: le galassie, insomma, si allontanano sempre di più l’una dall’altra, e lo fanno in modo omogeneo. In particolare l’astronomo enunciò una legge (la “legge di Hubble”, appunto) che prevede una relazione di diretta proporzionalità tra la velocità di recessione delle galassie e la loro distanza da noi: in poche parole, se una galassia è due volte più distante, si muoverà a velocità doppia, e così via (a onor del vero giunse alle stesse conclusioni in modo indipendente anche un altro cosmologo, il belga Georges Lemaître, tanto che recentemente si è proposto di ribattezzare l’equazione in “legge di Hubble-Lemaître”).

La costante di Hubble. La scoperta di Hubble fu di quelle rivoluzionarie, perché fino a pochi anni prima era opinione comune tra gli scienziati che l’universo fosse in realtà statico. Albert Einstein ne era talmente convinto che arrivò a correggere le sue equazioni della relatività aggiungendo un termine arbitrario, detto “costante cosmologica”, che “impedisse” all’universo di evolvere. Il fisico tedesco ammise poi l’errore, definendolo addirittura “il più grave della su vita”, sebbene di recente la sua costante cosmologica è tornata di moda per spiegare uno dei massimi misteri della fisica moderna, l’energia oscura (ma questa è un’altra storia).

Tornando alla legge di Hubble (anzi, di Hubble-Lemaître), la costante di proporzionalità tra la velocità delle galassie e la loro distanza è detta, per mancanza di fantasia, “costante di Hubble”. Si tratta di un parametro molto importante, che dà una misura del tasso di espansione dell’universo, cioè di quanto rapidamente questa avvenga. Ebbene, può sembrare incredibile ma a 90 anni dalla sua definizione non esiste ancora un accordo all’interno della comunità scientifica sul valore esatto di questa costante. Per un motivo molto semplice: le due principali tecniche sperimentali usate per misurarla forniscono due valori significativamente diversi, tanto da essere tra loro incompatibili.

Come si misura l’espansione dell’Universo? E non si tratta certo di metodi improvvisati. Il primo è il progetto SH0ES (Supernovae, H0, for the Equation of State of Dark Energy), guidato dal premio Nobel Adam Reiss, che per risalire al valore della costante sfrutta una serie di misure “locali” che messe insieme costituiscono la cosiddetta “scala di distanze cosmiche”, che si usa per determinare le distanze degli oggetti celesti. Il tutto grazie alle stelle pulsanti Cefeidi, usate come riferimento in quanto “candele standard”: sono infatti dotate di una correlazione molto stretta tra il loro periodo di pulsazione e la loro luminosità assoluta, e perfette per misurare distanze. Con l’aiuto delle osservazioni del potente telescopio spaziale Hubble della NASA e del satellite Gaia dell’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea), Reiss e colleghi hanno recentemente raffinato la misura della costante di Hubble, fissandola a un valore di circa 74 chilometri al secondo per megaparsec, con un’incertezza sperimentale inferiore al 2%.

Il secondo metodo considera invece un universo molto più remoto nello spazio e nel tempo: quello primordiale, risalente agli istanti successivi al Big Bang. Di quell’universo rimane ancora una traccia, la cosiddetta radiazione cosmica di fondo, una sorta di relitto a microonde che porta informazioni preziosissime sui primi vagiti dell’universo. Studiando le piccole disomogeneità di questa radiazione, che permea in modo (quasi) perfettamente uniforme l’intero universo, è possibile risalire al valore della costante di Hubble. È ciò che ha fatto – tra le altre cose – il satellite Planck dell’ESA, che ha mappato la radiazione cosmica di fondo tra il 2009 e il 2013: sulla base dei dati raccolti, la stima della costante di Hubble risulta pari a 67.4 chilometri al secondo per megaparsec. I valori ottenuti dai due esperimenti sono fisicamente incompatibili: la discrepanza è infatti più di quattro volte superiore alle incertezze sperimentali combinate.

Due misure, un mistero. Ma è possibile che uno dei due esperimenti si sbagli? Difficile. Si tratta di collaborazioni internazionali di alto livello che hanno messo in campo le migliori menti e le migliori tecnologie oggi a disposizione per questo genere di osservazioni. Pensare che in uno dei due esperimenti sia stato commesso qualche errore sperimentale grossolano che abbia alterato la misura appare quindi molto improbabile.

E allora come la mettiamo? Per quanto i cosmologi mantengano ancora grande prudenza, l’ipotesi più probabile sul campo è che sia necessario rivedere qualcosa del cosiddetto modello cosmologico standard, ossia l’impalcatura teorica su cui è basata la cosmologia (modello che peraltro ha ricevuto finora numerose conferme sperimentali). In particolare le possibilità sono due: o la fisica dell’universo primordiale era in qualche modo diversa da quella che ipotizziamo (il che giocherebbe a sfavore della misura ottenuta dal satellite Planck), oppure l’evoluzione più recente dell’universo non è esattamente la stessa prevista dal modello cosmologico standard (che invece renderebbe non più affidabile il risultato dell’esperimento SH0ES).

La cosmologia dell’universo, insomma, forse dovrà essere riscritta, almeno in parte. Una prospettiva al tempo stesso esaltante ma anche preoccupante per gli scienziati, che al momento non sanno in che direzione muoversi. Una possibile soluzione, però, è all’orizzonte. Un altro modo di derivare la costante di Hubble, del tutto indipendente dagli altri due metodi, sfrutta le informazioni portate dalle onde gravitazionali prodotte dalla fusione di coppie di stelle di neutroni. Nei prossimi anni, grazie agli esperimenti LIGO e Virgo di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, si prevede di osservare decine di eventi di questo tipo, il che consentirà di avere una statistica sufficiente a ricavare con precisione il valore della costante di Hubble. E a quel punto sarà molto interessante vedere da che parte penderà la bilancia.

Matteo Serra
Matteo Serra

Matteo Serra è fisico e comunicatore della scienza. Lavora alla Fondazione Bruno Kessler di Trento, dove è responsabile del progetto di comunicazione “Cittadini per la scienza”. Scrive di scienza (soprattutto di fisica) per “Le Scienze”, “la Repubblica”, “PLaNCK!”, “FBK Magazine” e altre testate nazionali.

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