Future Society

Prospettive del lavoro, dalla formazione all’innovazione

25 September 2020 | Scritto da Nicholas Chilese

Le rapide innovazioni scientifico tecnologiche mettono in discussione modelli e sistemi che fino ad oggi abbiamo adottato, imprenditoriali e organizzativi ma anche e soprattutto formativi ed educativi. Abbiamo analizzato la situazione con un esperto del settore, Alberto Giusti

Google lancia la sua Università. Questo titolo è apparso qualche settimana fa sui giornali e sulle bacheche social di molti di noi. Andando un po’ più a fondo si scopre come il titolo sia fuorviante: a essere stati presentati sono stati, infatti, dei corsi online creati per rispondere alla carenza di competenze nell’ambito delle nuove discipline del digitale. Corsi che portano ad ottenere certificazioni su settori come data analytics, program management, software.

Questo errore non cambia la sostanza dei fatti: le Università faticano a formare figure necessarie al mercato del lavoro e altri attori si propongono come nuove palestre di talenti. A dirlo sono i dati: una recente ricerca globale di ManpowerGroup stima che il 54% delle aziende rileva una carenza di talenti qualificati in fase di assunzione (47% in Italia). Un trend destinato a peggiorare.
Questo si riflette anche sulla capacità di innovare delle imprese e del management, in particolare in Italia dove l’alfabetizzazione digitale è ancora un problema culturale per imprese e società.i

Ne abbiamo parlato con Alberto Giusti, esperto di digital transformation con oltre vent’anni di esperienza in strategia d’impresa e CEO per diverse aziende internet, uno dei fondatori del movimento Digital Building Blocks per la trasformazione digitale e di Guilds42, piattaforma di incontro, formazione e lavoro per imprese e giovani.

 

L’Italia secondo diversi indicatori, come il Global Innovation Index 2019 o l’European Innovation Scoreboard 2020, si trova tra i paesi moderatamente innovatori, sotto la media europea e a diversa distanza dagli Innovation leader. A suo avviso quali politiche possono velocizzare i processi di innovazione nel paese?

Secondo me il primo focus è sull’ambito education. In Italia ad esempio non c’è un corso universitario o di dottorato sull’imprenditorialità, ed è uno dei pochi Paesi a non averlo. Questa è una grave carenza: la conseguenza è quella che l’imprenditore tende ad essere “un improvvisato” o autodidatta. Inoltre c’è anche un tema culturale, chi esce dall’università non decide di fare l’imprenditore, viene quasi visto come un piano B, quando in realtà in altri Paesi, dove questo tipo di percorso ha un elevato valore sociale, l’imprenditore viene stimato mentre in Italia viene quasi bistrattato.

 

Spesso si denuncia anche la mancanza di un ecosistema che favorisca l’innovazione…

Questo secondo me è l’altro argomento centrale: non ci sono i casi di successo, non ci sono gli esempi. In America hanno Mark Zuckemberg, hanno Steve Jobs, una generazione che ha dimostrato come è possibile generare ricchezza con l’innovazione. In Italia gli ultimi grandi esempi che abbiamo sono Adriano Olivetti o personaggi della stessa epoca. I giovani d’oggi quindi non riescono ad avere esempi da seguire e modelli da imitare. Basti pensare che le aziende che valgono di più al mondo in questo momento sono nate negli ultimi 50 anni e sono americane, meccanismi simili in Italia non ne abbiamo avuti ed è difficile per i giovani avere ispirazioni in ambito imprenditoriale.
Un terzo elemento riguarda le politiche fiscali di investimento sulle startup, politiche che in altri Paesi sono partite da tempo e hanno consentito all’ecosistema finanziario di abilitare più facilmente gli investimenti in startup, dando dei benefici importanti. Cosa che adesso esiste anche in Italia ma soltanto da poco, non ne abbiamo ancora visto gli effetti.

 

L’edizione 2020 del rapporto europeo Desi sulla digitalizzazione dell’economia e della società, appena diffuso dalla Commissione Europea, vede l’Italia peggiorare in una classifica dove da anni siamo tra i fanalini di coda (25° su 28 paesi). Crede che la situazione possa sbloccarsi nel breve o medio termine o il gap accumulato è destinato a rappresentare un ostacolo alla crescita del Paese?

L’unico modo in cui questa situazione può sbloccarsi è che quei settori dove l’Italia ha qualcosa da dire riescano a fare il percorso di digital transformation con un focus su sales e marketing. Parlo di oreficerie, concerie, il manufacturing, la viticoltura, settori in cui  l’Italia è un’eccellenza riconosciuta ma dove non è ancora avvenuta la trasformazione digitale in grado di modificare il sistema. Il cambio nel breve periodo può avvenire solo se il focus sarà nel sales e marketing:ambiti dove in 3-5 mesi l’azienda può riuscire ad avere risultati e acquisire fiducia, solo così potrà poi premere sull’acceleratore innovando sugli altri fronti. Se continueremo a focalizzarsi su industria 4.0, sulla digitalizzazione della produzione e sul controllo dei macchinari e utensili, tutti temi assolutamente interessanti ma in realtà secondari su una roadmap,sarà difficile avere un cambiamento rapido.

 

I mercati e i modelli di business diventano sempre più complessi sull’onda delle tecnologie esponenziali e della digitalizzazione, in questo contesto quali ritiene possano essere gli asset più importanti per le imprese oggi e nel prossimo del futuro ? Penso ad esempio al framework sviluppato da Open Exo che delinea gli strumenti fondamentali per una “organizzazione esponenziale”.

Tutti si stanno focalizzando sull’innovazione quando in realtà è un pezzo che deve venire dopo. Oggi va utilizzato il digitale per implementare le sue funzionalità fondamentali, che è dove dovrebbero focalizzarsi le aziende anche prendendo a riferimento il framework di Open Exo. Se andiamo ad analizzare l’alfabetizzazione digitale del management e del personale dell’aziende vedremo che è irrisoria, come emerge dal report che citavi, probabilmente meno del 20% dei soggetti usa normalmente tecnologie digitali standard come il CRM. Dovremmo quindi prima di tutto pensare all’abc, che porta dei risultati importanti facendo delle attività relativamente rapide e semplici.  

 

Anche a seguito dell’emergenza in corso il tema smart working è diventato centrale: ma non è però l’unica nuova frontiera dell’organizzazione aziendale. Da anni emergono infatti soluzioni organizzative elastiche e non gerarchizzate, come ad esempio holicracy, modello di self-management. Ritiene si tratti prevalentemente di letteratura e di poche applicazioni pratiche? Qual è la sua generale percezione a riguardo?

Tristemente, mi viene da dire che i modelli organizzativi delle aziende italiane non sono in discussione. Cioè, abbiamo detto che manca la tecnologia, figurarsi se la tecnologia che c’è viene usata davvero per riorganizzare l’azienda. Le uniche che usano davvero la tecnologia per implementare dei nuovi modelli organizzativi sono le aziende “native digitali”, cioè quelle nate con le nuove tecnologie.

 

Ritiene l’applicazione di questi nuovi modelli possibile a livello potenziale? E se si, come?

Lo ritengo possibile, la tecnologia di oggi rende possibile un certo modello organizzativo. Come dimostrano ancora i vari Google e Facebook dove i team sono composti mediamente da meno di 4 persone, cosa molto rara in altre organizzazioni. È necessario un processo di change management che porti a cambiare il modello attuale, avere meno livelli gerarchici e avere più soggetti un po’ più indipendenti che si auto regolano.

 

Quali modelli formativi pensa saranno più adeguati per preparare le nuove generazioni ai lavori del futuro? Anche prendendo spunto dal recente annuncio di Google?

Credo che saranno sempre più importanti l’educazione alle soft skills, nella misura in cui non si sa quali saranno le hard skills necessarie per il futuro. Nessuno ci insegna comunicazione, team-working, public speaking, processi di decisione di gruppo. Competenze che si apprendono in modo pratico attraverso workshop dove i docenti discutono i temi assieme agli studenti. La tecnologia aiuterà molto l’aspetto educativo e lo sta già facendo, ma il sistema scolastico non lo recepisce. Credo che in futuro vi sarà sempre più una formazione personalizzata, quindi ognuno farà il suo percorso, e credo che saranno percorsi dinamici che cambieranno nel tempo. A eccellere, comunque, credo che saranno quelli che avranno le capacità di apprendere dall’esterno dei sistemi tradizionali, scegliendo strade alternative.

 

L’ultima domanda la dedico ad un concetto caro a noi di Impactscool: quanto ritiene sia importante per i manager di oggi il concetto di “future literacy” che l’Unesco definisce come la consapevolezza di quanto ci può aspettare in futuro?

Come al solito, nella storia del mondo, comporterà l’evoluzione o l’estinzione. Oggi con i cicli evolutivi più veloci, quindi con il cambiamento che va più rapido, diventa sempre più necessario stare focalizzati sui cambiamenti in atto, molto più che in passato. Se si sbaglia l’industry il settore dove si dedicano energie e percorsi educativi si rischia di rimanere estromessi dal contesto lavorativo, oggi restando troppo focalizzati sul presente c’è la possibilità dell’”estinzione del singolo”. Mentre una mentalità aperta verso il futuro e orientata a comprendere le cose nuove che succedono è più probabile che non rimanga in un “cul-de-sac”, quindi in un’industria, settore o approccio metodologico che ormai è obsoleto e viene soppiantata da modelli e tecnologie innovative.

Nicholas Chilese
Nicholas Chilese

Nicholas Chilese è appassionato di economia e innovazione, oltre che di sociologia e psicologia. Da due anni segue e collabora con una startup innovativa attiva nell’ambito dell’Equity Crowdfunding e da qualche mese si occupa di Digital Strategy a Milano in una società di consulenza e formazione.

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